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Come foreste, agricoltura e allevamenti contribuiscono al surriscaldamento del clima

Articolo del 16 maggio 2020

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Circa la metà delle terre abitabili del nostro pianeta è sfruttata per la produzione del cibo che consumiamo. L’80% di questi terreni utilizzati dall’uomo servono solo a foraggiare il bestiame destinato alla produzione di carne e latte. Gli allevamenti di bestiame hanno un impatto molto più importante sul clima della produzione di frutta e ortaggi. 

Sono cinque le grandi estinzioni di massa che hanno colpito la vita sul nostro pianeta e una sesta sta verificandosi proprio ora per opera dell’uomo. L’impatto delle attività umane sugli ecosistemi naturali è infatti quintuplicato in questi ultimi 200 anni e sta provocando un crollo della biodiversità e surriscaldando in modo allarmante il clima della terra. Oltre all’utilizzo massiccio di combustibili fossili, l’utilizzo sempre più massiccio del suolo per la produzione alimentare è diventato uno dei fattori determinanti dell’aumento dell’effetto serra.

Per citare l’esempio dell’Amazzonia, gran parte della distruzione delle sue foreste pluviali serve a liberare terreni per creare pascoli per il bestiame o per produrre soia, la quale serve a sua volta a foraggiare allevamenti in altri paesi. La farina di soia viene infatti utilizzata soprattutto come complemento alimentare nei mangimi per pollame (46%), bovini (20%) e maiali (25%). Solo il 3% della farina di soia è utilizzato per alimenti vegani destinati all’uomo, quali ad esempio il tofu, il latte e lo iogurt di soia e le salse di soia.

Rispetto alla maggior parte degli altri settori economici, l’agricoltura e l’allevamento di bestiame producono una quota di emissioni di CO2 di origine fossile relativamente bassa. Essi sono tuttavia le maggiori fonti di emissioni di altri due gas a effetto serra: il metano (effetto serra 28 volte più intenso del CO2) e il protossido d’azoto (effetto serra 300 volte potente del CO2), con quote superiori rispettivamente all’80 e al 75% delle emissioni globali di questi due gas. Se dunque da un lato la filiera agroalimentare rappresenta, tramite l’agricoltura, un prezioso sistema di stoccaggio di CO2, dall’altro essa è anche complice dei cambiamenti climatici, liberando i gas sopracitati nell’atmosfera ed esercitando così un influsso diretto sulla crescita della concentrazione dei gas a effetto serra. Essa ne paga tuttavia anche le conseguenze, con i cambiamenti climatici che si ripercuotono negativamente sulle condizioni della produzione agricola.

Le foreste sono il più vasto sistema di stoccaggio del CO2

A livello mondiale le foreste e i terreni sui quali crescono racchiudono circa 862 miliardi di tonnellate di carbonio. Sebbene coprano meno del 30% delle terre emerse, la loro biomassa immagazzina circa la metà del carbonio non fossile. Disboscando vasti territori, non solo diminuisce la capacità della vegetazione di riassorbire il CO2 emesso nell’atmosfera, ma quando essa viene bruciata, il carbonio in essa immagazzinato nel corso di centinaia di anni è rilasciato in modo estremamente rapido nell'aria, contribuendo all’aumento della concentrazione di CO2 e quindi in definitiva all’aumento dell’effetto serra. Così gli incendi, che hanno devastato l’Australia tra settembre dell’anno scorso e gennaio di quest’anno, hanno generato 400 milioni di tonnellate di CO2, più di quanto ne emettano ogni anno le 116 nazioni meno inquinanti, il che corrisponde anche, per fare un altro paragone, alla metà del CO2 emesso in un anno dall'intera aviazione civile mondiale (fonte: MIT / Massachusetts Institute of Technology di Boston).

Anche biocarburanti e pellet sono contributori netti dell’aumento del CO2 nell’atmosfera

L’agricoltura intensiva moderna accelera la decomposizione e la mineralizzazione della materia organica contenuta nel suolo. Solo un’agricoltura biologica, che prevede l'uso di concimi naturali, può ricostruire lo strato di carbonio organico del suolo. La FAO stima che le emissioni di CO2 per ettaro di terreno coltivato con metodi di agricoltura biologica siano inferiori del 48 - 66% rispetto alle emissioni generate da terreni coltivati in modo convenzionale. Anche la produzione di cosiddetti biocarburanti contribuisce a ridurre il carbonio immagazzinato nel suolo. Un recente studio ha dimostrato che i biocarburanti prodotti a partire dagli scarti di mais aumentano le emissioni di gas serra. Ciò perchè la materia organica, invece di tornare nel suolo, dove si trasformerebbe in humus, viene bruciata come carburante, immettendo ulteriore CO2 nell’atmosfera. Anche l’uso di pellet per il riscaldamento aumenta la concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Il sistema naturale di riciclo del carbonio non prevede infatti alcun processo di combustione.

Un enorme potenziale di riduzione dei gas a effetto serra

Agricoltura, allevamenti di bestiame e silvicoltura sono responsabili di quasi ¼ (23%) delle emissioni di gas a effetto serra di origine antropica (Fonte: Climate Change and Land: Summary for Policymakers, IPCC 2019). I maggiori responsabili del settore sono gli allevamenti di bestiame e fra questi i più inquinanti sono quelli di bovini. Sono infatti i ruminanti ad emettere tonnellate di metano nell’atmosfera e ciò è dovuto al loro particolare sistema digestivo. I cinque maggiori produttori mondiali di latte e carne, ossia JBS, Cargill, Tyson, Dairy Farmers of America e il gruppo Fonterra hanno emesso assieme nel 2016 gas a effetto serra per un equivalente di ben 578 milioni di tonnellate di CO2, ossia più delle emissioni della Gran Bretagna (507 milioni di tonnellate di CO2) o del gigante del petrolio Exxon (577 milioni di tonnellate di CO2 nel 2015).

Se teniamo poi conto del fatto che ogni anno milioni di tonnellate di generi alimentari finiscono al macero (12 milioni di tonnellate nella sola Germania, ossia una media di 146 kg per ogni singolo abitante / Fonte: Thünen-Institut), ci rendiamo conto che il settore alimentare cela un enorme potenziale di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. Basterebbe infatti porre termine allo spreco alimentare e ridurre in modo sostanziale il consumo di carne bovina per ridurre in modo consistente il suo impatto sul clima.