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Allarme rosso per il clima: nel 2023 le foreste hanno smesso di assorbire CO2

Articolo del 17 ottobre 2024

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L'anno scorso il tasso di CO2 nell’atmosfera è cresciuto di 3.37ppm, una crescita dell’86% superiore a quella registrata nell’anno precedente e ciò malgrado il fatto che le emissioni dovute al consumo di combustibili fossili fossero aumentate soltanto dello 0.6%. Si tratta di un aumento senza precedenti dovuto all’ondata di calore altrettanto senza precedenti che ha compromesso la capacità degli ecosistemi terrestri di assorbire CO2

Nel 2023 la nostra civiltà industriale, basata sui carburanti e i combustibili fossili, ha immesso nell’atmosfera 41.2 miliardi di tonnellate di gas serra, il 0.6% in più rispetto all’anno precedente, facendo schizzare il tasso di CO2 disciolto nell’atmosfera fino a un massimo di 424 ppm, il 50% in più dell’epoca preindustriale. Quel che ha però sorpreso e che preoccupa molto i climatologi è che l’aumento di CO2 registrato l’anno scorso è cresciuto dell’86% rispetto a quello registrato l’anno precedente. Se le emissioni di gas serra sono aumentate nello stesso lasso di tempo solo dello 0.6%, come mai un tale divario?

Il fatto è che finora circa la metà delle nostre emissioni di carbonio venivano di regola riassorbite dalla natura. Stavolta però, a grande sorpresa dei climatologi, questo non è successo. I modelli climatici su cui si basano gli esperti non avevano finora preso in considerazione la possibilità di un collasso improvviso dei cosiddetti “depositi naturali di carbonio”, eppure è proprio quel che è successo l’anno scorso in particolare per quel che concerne le foreste.

Crolla la capacità delle foreste di catturare il CO2

Secondo uno studio della Cornell University, pubblicato sotto il titolo “Low latency carbon budget analysis” e condotto da un team internazionale di ricercatori, l’anno scorso, quello più caldo mai registrato, la vegetazione e il suolo hanno smesso quasi completamente di assorbire CO2. Si è trattato del primo crollo mai registrato della capacità degli ecosistemi terrestri di immagazzinare carbonio. Il crollo è stato provocato in particolare da vasti incendi di foreste, dalla moria di conifere dovuta al dilagare del bostrico, dal disboscamento e dalla siccità ed è probabilmente proseguito anche in questo 2024, anno in cui le temperature hanno superato con ogni probabilità il record registrato appena un anno fa. Le cifre in merito al 2024 saranno verosimilmente disponibili fra un paio di mesi.

Così le gigantesche foreste boreali, che si estendono in nella parte europea e in quella asiatica della Russia, in Scandinavia, in Canada e in Alaska e in cui è accumulato circa un terzo di tutto del carbonio presente sulla terraferma, da depositi di CO2 si sono trasformate in produttrici nette di questo gas serra. Per illustrare il fenomeno basta citare un solo esempio, quello degli enormi incendi che hanno devastato l’anno scorso le foreste canadesi e che hanno prodotto l’equivalente di mezzo anno di emissioni di CO2 degli Stati Uniti. Se poi si aggiungono anche gli incendi che hanno devastato la foresta amazzonica e le gravi condizioni di siccità in diverse parti della fascia tropicale, ecco spiegato il nuovo picco di gas serra nell’atmosfera.

L’anno scorso soltanto una delle grandi foreste pluviali tropicali, quella del bacino del Congo, ha rimosso più CO2 di quanto ne abbia rilasciato nell'atmosfera. Per contro, devastato dal surriscaldamento del clima, dalla deforestazione, dagli incendi, da una siccità record che ha letteralmente ridotto in secca i suoi fiumi e non da ultimo da El Niño, il bacino amazzonico è diventato un produttore netto di CO2, mentre sul lato opposto del globo l'espansione dell'agricoltura ha trasformato le ex foreste pluviali tropicali del sud-est asiatico in una nuova fonte netta di emissioni.

Stando agli esperti, c’è ancora la speranza che quello verificatosi nel 2023 possa essere stato soltanto un fenomeno temporaneo e che gli ecosistemi terrestri possano rigenerarsi e tornare di nuovo ad assorbire CO2. Ma questo fenomeno illustra l’estrema fragilità degli ecosistemi e le enormi implicazioni che questa fragilità ha sulla crisi climatica.

In crisi anche gli oceani

Ogni giorno, al calare della notte, miliardi di miliardi di zooplancton, crostacei e altri organismi marini risalgono alla superficie degli oceani per nutrirsi delle alghe microscopiche che vi crescono immagazzinando CO2, per poi tornare al sorgere del sole nelle profondità. I rifiuti di questa orgia alimentare - la più imponente migrazione di creature della Terra - precipitano in seguito sul fondale marino, sottraendo così ogni anno all’atmosfera milioni di tonnellate di carbonio. Si tratta di un’altra di quelle che gli scientifici chiamano una “natural carbon sinkhole”, ossia di un deposito naturale di carbonio. 

Questo fenomeno è quello più importante delle migliaia di altri processi naturali implicati nella regolazione del clima della Terra. Insieme, gli oceani, le foreste, le torbiere, le praterie, i suoli e altri depositi naturali di carbonio del nostro pianeta, assorbono infatti circa la metà di tutte le emissioni di gas serra prodotte dall’uomo bruciando combustibili fossili. Senza questi processi naturali il surriscaldamento del clima del nostro pianeta sarebbe già raddoppiato.

Ma purtroppo anche dal mare ci giungono segnali allarmanti. I ghiacciai della Groenlandia e la banchisa dell'Artico e dell’Antartide si stanno sciogliendo molto più velocemente del previsto, il che sta tra l’altro rallentando la Corrente del Golfo e con essa riducendo anche la capacità di assorbimento del CO2 da parte dell’oceano. Questo perché lo scioglimento dei ghiacci marini espone lo zooplancton, che si nutre di alghe, a una maggiore quantità di luce solare, un cambiamento che, secondo gli esperti, lo trattiene più a lungo in profondità, interrompendone la migrazione verso la superficie e riducendone così la capacità di immagazzinare CO2 per poi depositarne il carbonio sul fondo dell'oceano. 

 “Stiamo assistendo a crepe nella resilienza dei sistemi terrestri. Stiamo assistendo a crepe enormi sulla terraferma: gli ecosistemi terrestri stanno perdendo la loro capacità di immagazzinare e assorbire il carbonio, ma anche gli oceani stanno mostrando segni di instabilità”. A dirlo è Johan Rockström, il celebre scienziato svedese, direttore del Potsdam Institute For Climate Impact Research.

Gas serra e temperature aumentano sempre più in fretta

Dalla fine dell’ultima glaciazione, 12.000 anni or sono, il clima del nostro pianeta è stato caratterizzato da un fragile equilibrio. Questa, tutto sommato, stabilità meteorologica ha permesso lo sviluppo dell'agricoltura moderna, che oggi sostiene una popolazione umana di oltre 8 miliardi di persone, senza contare i miliardi di animali da reddito. Con l’avvento dell’industrializzazione, le emissioni umane di gas a effetto serra hanno però iniziato ad aumentare in modo sempre più rapido (+52% dal 2000 al 2023). Parallelamente, in un primo tempo, è aumentata anche la quantità di CO2 assorbita dalla natura. Infatti in presenza di più CO2 la vegetazione e le alghe hanno tendenza a crescere più rapidamente, immagazzinando più carbonio. Ma questo fragile equilibrio è stato rotto quando le nostre emissioni clima-alteranti hanno superato la capacità di assorbimento della natura verso la fine del 19° secolo e da allora la temperatura del nostro pianeta ha iniziato inesorabilmente a salire, dapprima molto lentamente e recentemente in modo sempre più rapido. 

Le temperature stanno oramai superando le soglie di tolleranza dei nostri ecosistemi

Noi umani siamo una specie a sangue caldo, il nostro corpo funziona in modo ottimale alla temperatura interna di 37°C. Se la temperatura del nostro corpo sale di soli 2 gradi a 39°C abbiamo un febbrone e tutti sanno che cosa ciò significa. Se poi la temperatura del nostro corpo dovesse oltrepassare la soglia dei 42°C la morte è dietro l’angolo. Ma mentre in caso di calore eccessivo noi umani possiamo rifugiarci in locali climatizzati, il mondo vegetale e quello animale non hanno scampo

Ora appare sempre più evidente che in molti luoghi del nostro pianeta le temperature hanno già superato la soglia di tolleranza dei nostri ecosistemi terrestri e marini, e che si stia assistendo all’inizio del loro collasso. Ad esempio nei boschi della Germania, stando agli ultimi rilevamenti (Waldzustandserhebung 2023), solo ancora 1 albero su 5 può essere considerato in buona salute e in diverse regioni tedesche si assiste già a una moria dei boschi su vasta scala. Per quel che concerne gli oceani citeremo soltanto la moria delle barriere coralline, gli ecosistemi marini più importanti in assoluto, la metà delle quali sono oramai perse.  

Il problema è che nessuno dei modelli climatici utilizzati finora era riuscito a prevedere la rapidità con cui questo collasso si sta verificando. Infatti, se le emissioni di gas clima-alteranti sono relativamente facili da misurare, usando come metro la quantità di combustibili fossili fossili usati, il loro riassorbimento da parte degli ecosistemi terrestri e marini avviene, secondo gli esperti, attraverso processi estremamente complessi, tuttora poco conosciuti nel dettaglio. Ecco perché nella scienza climatica permangono in questo campo importantissime lacune. 

La cattura dall’aria di CO2 e il suo stoccaggio nel sottosuolo non è un’opzione

Dal 1850, quando s’è iniziato ad estrarre carbone in grande stile dal sottosuolo, ad oggi, abbiamo immesso nell’atmosfera quasi 2'600 miliardi di tonnellate di CO2 (Fonte: Statista). Dapprima bruciando carbone, successivamente petrolio e gas fossile. Ciò ha fatto lievitare del 50% il contenuto di CO2 nell’atmosfera.

Per raggiungere l'ambizioso obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 occorrerebbe dunque far sparire questo eccesso di carbonio, o perlomeno gran parte di questo eccesso, nuovamente nel sottosuolo. Molti scommettono sulla cattura diretta dall’aria del CO2 tramite la tecnologia DAC (Direct Air Capture), come la ditta Holocene, una start-up statunitense che ha appena siglato un accordo con Google per catturare e stoccare 100’000 tonnellate di CO2 all’anno a partire dal 2032.

Ma quanto costano la cattura dall’aria del CO2 e il suo stoccaggio definitivo? Attualmente l’impianto Orca, il primo e più grande sito DAC che opera in Islanda e che è gestito da Climeworks fornisce questa prestazione a oltre 1000 $ a tonnellata, un prezzo proibitivo. Qualora però queste tecnologie dovessero essere adottate su scala industriale il loro prezzo potrebbe scendere, e secondo uno studio del Politecnico di Zurigo esso verrebbe a situarsi, a seconda delle tecnologie messe in atto, fra un massimo di 835 $ e un minimo di 230 $ a tonnellata.

Secondo gli esperti di “Clean Air Task Force”, nello spazio economico europeo, Regno Unito incluso, esistono 2’170 impianti industriali e di produzione di elettricità che emettono ciascuno almeno 100’000 tonnellate di CO2 all'anno, per un totale complessivo di oltre 1,2 miliardi di tonnellate di emissioni catturabili. Un semplice calcolo fatto usando la cifra mediana delle varie tecnologie prese in considerazione dallo studio del Politecnico di Zurigo, ossia di 362 $ a tonnellata, mostra che i costi annuali per la cattura di queste 1,2 miliardi di tonnellate di CO2 ammonterebbero a (362 $ x 1.2 miliardi di t.) 434,4 miliardi di dollari, all’anno nota bene!

Oggi, tuttavia, il costo della cattura diretta di CO2 dall’aria è ancora proibitivo e il suo calo, sempre stando al Politecnico di Zurigo altamente incerto (“The cost of novel technologies, like direct air capture (DAC) technologies, remains highly uncertain”). In assenza di tecnologie finanziabili in grado di rimuovere su vasta scala e in tempo utile dall’atmosfera le enormi quantità di CO2 accumulate dal 1850 ad oggi, le vaste foreste, le praterie, le torbiere e gli oceani rimangono per intanto l'unica opzione praticabile. Non a caso oltre un centinaio di paesi fanno affidamento proprio su questi depositi naturali di carbonio per raggiungere i loro obiettivi climatici nazionali.

Ecco perché il rapido collasso dei depositi naturali di carbonio verificatosi l’anno scorso sulla terraferma dovrebbe far ululare le sirene d’allarme.