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14.03.2019
Notizie negative
Articolo del 11 novembre 2022
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Se il clima continua a surriscaldarsi al ritmo degli ultimi anni, presto vivere sul nostro pianeta non arrischia solo di diventare molto pericoloso, ma addirittura mortale. Una valanga di nuovi studi sul clima mostra perché ci sono tutte le ragioni per essere più che preoccupati
Negli scorsi giorni il quotidiano britannico The Guardian titolava “Why scientists are using the word scary over the climate crisis”, “Perché gli scienziati usano la parola paura quando parlano della crisi climatica”. Il fatto è che sempre più scienziati ammettono pubblicamente di essere spaventati dai recenti fenomeni climatici estremi, come: la siccità e le ondate di calore in Europa, in Nord America e nell'Africa orientale, le gravissime inondazioni in Pakistan, in Australia e nell'Africa occidentale, i giganteschi incendi in Siberia e il rapidissimo scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari. L'aumento di questi eventi estremi non è che non fosse previsto, esso è infatti sempre stato in cima alla lista delle preoccupazioni dei climatologi, insieme all'innalzamento del livello del mare. Quel che preoccupa i ricercatori è il modo repentino e la ferocia con cui gli effetti del surriscaldamento del clima previsti per la fine del secolo si stanno già manifestando ora. Questi due fattori fanno infatti pensare che potremmo già aver oltrepassato alcuni importanti “Tipping Points”, ossia quei punti di svolta oltre i quali il surriscaldamento diventa inarrestabile. I modelli climatici utilizzati finora avevano certo previsto l’aumento delle temperature, ma in modo abbastanza costante e graduale. Di recente il clima sembra tuttavia essere letteralmente fuori controllo.
Temperature impazzite
Di solito i nuovi record di temperatura si misuravano in decimi di grado o magari al massimo in uno o due gradi. L’ondata anomala di calore che ha colpito la costa ovest del Nord America nell’estate dell’anno scorso e che ha fatto schizzare il mercurio nel villaggio canadese di Lytton fino a soli 4 decimi di grado sotto i 50°C, provocando un devastante incendio che ha ridotto in cenere in poche ore l’intero villaggio, ebbene questa ondata di caldo ha superato di ben 5°C i precedenti record della regione, un fenomeno mai visto prima e che ha causato centinaia di morti. Anche in Europa quest’estate e quest’autunno la temperatura del Mare Mediterraneo ha superato di 5°C la sua media stagionale, mentre in Spagna e nel Sud dell’Italia si sfioravano i 50°C. Nel luglio di quest’anno, nella località inglese di Bramham, il termometro a toccato per la prima volta la soglia dei 40°C, ossia 6,5°C in più del precedente record, e ciò appena due anni dopo che i climatologi avevano affermato che la probabilità che in Inghilterra si potessero sfiorare i 40°C nel corso di questo decennio era solo di 1 a 100. Nelle regioni polari è andata anche peggio: l’Antartico ha visto addirittura temperature di 40°C e l’Artico di 30°C al di sopra della norma stagionale.
Quando si sa che ogni grado in più significa il 7% di vapore acqueo in più nell’atmosfera, si capisce anche il perché delle terribili inondazioni che hanno devastato di recente il Pakistan, l’Australia e la Germania.
Emissioni di gas serra ogni anno più elevate
Secondo le cifre pubblicate dalla NOAA, l’agenzia statunitense per il clima, negli ultimi 30 anni le emissioni di gas serra sono aumentate del 49%. In Europa la quantità di gas serra prodotta annualmente sembra sia diminuita del 34% rispetto a 30 anni fa, ma si tratta di un calo in gran parte fittizio dovuto soprattutto alla delocalizzazione verso paesi in via di sviluppo e paesi emergenti di gran parte dell’industria pesante e di una buona parte di quella che produce beni di consumo. Di fatto, i quantitativi di gas serra contenuti nell’atmosfera, monitorati fin dagli anni ’50 del secolo scorso dall’osservatorio hawaiano di Mauna Loa, segnano anno dopo anno nuovi record. Il CO2 diffuso nell’atmosfera era attorno ai 300ppm nel 1950. Lo scorso mese di maggio ha superato per la prima volta i 420ppm, il 40 % in più rispetto al 1950.L’ultima volta che l’atmosfera terrestre ha contenuto altrettanto CO2 di oggi è stato nel Pliocene, circa 3-4 milioni di anni fa. Allora la temperatura era di 2-3°C superiore a quella attuale e il livello del mare superava di 25 metri quello di oggi.
Se il CO2, prodotto principalmente dalla combustione di carbone, petrolio e gas, è oggi responsabile dei 2/3 del surriscaldamento del clima, esso non è l’unico gas serra a continuare ad aumentare. Anche la concentrazione nell’atmosfera di metano (CH4) di origine antropica, quello prodotto da allevamenti di bovini, risaie irrigate, fracking, consumo di petrolio, gas e carbone, impianti di depurazione, nonché discariche, è cresciuta del 260% rispetto all’era preindustriale e si tratta di un gas serra con un effetto riscaldante 25 volte superiore a quello del CO2. Segue a ruota il protossido di azoto (N2O), conosciuto come gas esilarante e che ha un impatto sul clima 289 volte superiore a quello del CO2. Ebbene anche questo gas, che ha una vita media di 114 anni e che proviene principalmente dall'agricoltura e dall'industria chimica, è cresciuto del 23%. Va poi ricordato che il principale gas a effetto serra è il vapore acqueo (H2O), responsabile per circa i due terzi dell'effetto serra naturale. Sapendo che con ogni grado in più l’aria è in grado di assorbire il 7% di vapore acqueo in più, è facile capire che l’uomo, emettendo CO2, metano e protossido d’azoto, aumenta indirettamente anche il tasso di evaporazione dell’acqua, un fattore che amplifica ulteriormente il riscaldamento globale.
Sommata, la crescita delle emissioni di tutti questi gas serra ha fatto sì che negli ultimi 30 anni la capacità dell’atmosfera di trattenere il calore è aumentata del 50%.
Il surriscaldamento del clima ha iniziato ad autoalimentarsi
Stando a uno studio realizzato da una squadra internazionale di ricercatori e pubblicato sulla rivista "Science", il riscaldamento dell'Artico sta innescando un circolo vizioso. Gli scienziati si sono chinati in particolare gli incendi verificatisi dal 1982 al 2020 nelle foreste boreali dell'Artico siberiano. Ebbene dall’analisi delle immagini satellitari risulta che il 44% del totale dell'area andata distrutta negli ultimi 4 decenni è andata a fuoco nel 2019 e nel 2020: ossia 47’000 dei 92’400 chilometri quadrati sono bruciati in questi soli due anni, un’area più vasta dell'intera Svizzera. Secondo i ricercatori, il rischio d’incendio è aumentato proprio in concomitanza con il forte aumento della temperatura. Il 2019 e il 2020 sono stati infatti i due anni più caldi mai registrati in Siberia. Nelle due estati la temperatura media dell’aria in Siberia è stata di 2,65°C, rispettivamente di 2,82°C superiore rispetto alla media degli ultimi 40 anni. Nel giugno del 2020, nella città siberiana di Verkhoyansk, situata a Nord del circolo polare artico, è stata addirittura misurata la temperatura record di 38°C. In altre parole in Siberia s’è oramai messo in modo un meccanismo infernale che si autoalimenta: più fa caldo, più presto scompare la coltre nevosa, via la neve meno raggi solari vengono riflessi verso lo spazio e il terreno si riscalda ancora di più, il che fa crescere gli alberi più in fretta, la loro crescita assorbe più umidità e il terreno diventa più secco, favorendo gli incendi. La conseguenza di questi incendi: aree sempre più vaste di permafrost si stanno scongelando e rilasciano nell'atmosfera il carbonio in esse immagazzinato sotto forma di CO2 e di metano. Sempre stando ai dati satellitari, i soli incendi verificatisi in Siberia nel 2019 e nel 2020 hanno rilasciato nell’atmosfera gas serra per un equivalente di circa 413 milioni di tonnellate di CO2
Da notare che nelle regioni artiche è imprigionato carbonio per un equivalente di circa 1'468 miliardi di tonnellate di CO2, di cui la metà immagazzinata nella vegetazione e l’altra congelata nel permafrost. A titolo di paragone l’intera umanità sta emettendo nell’anno in corso gas serra per un equivalente di circa 40,6 miliardi di tonnellate di CO₂. Se dunque le regioni artiche, da deposito di carbonio che sono state finora, si trasformano in una nuova fonte di gas serra, ci troviamo di fronte a un meccanismo che si autoalimenta, sul quale non abbiamo più alcuna possibilità di controllo, e ciò con un riscaldamento globale che non ha nemmeno ancora toccato il limite di +1,5°C, fissato dall’accordo sul clima di Parigi.
Nei prossimi anni il pianeta potrebbe riscaldarsi in modo molto più repentino e brutale del previsto
Fra Coblenza e Treviri vi è una serie di vulcani spenti nei cui crateri si sono formati dei laghi, i cosiddetti “Maare der Eifel”, i cui sedimenti sono considerati dai ricercatori dei veri e propri archivi climatici, dalla cui lettura si può ricostruire l’evoluzione del clima anno dopo anno per diversi millenni. Ebbene, l’analisi di questi sedimenti ha rivelato che il clima è in grado di riscaldarsi in modo molto più brusco di quanto ipotizzato finora. Stando al Professor Achim Brauer, il geoscienziato responsabile della sezione “Dinamica climatica ed evoluzione del paesaggio” presso il Centro di ricerca tedesco per le geoscienze di Potsdam.: "Come gli anelli annuali degli alberi, i Maar presentano strati annuali. Per guardare 10.000 anni nel passato abbiamo dovuto trivellare a circa dodici metri di profondità e nei carotaggi possiamo distinguere i singoli anni e persino le singole stagioni". Analizzando al microscopio la composizione di questi sedimenti, si è riusciti a risalire alle temperature e, poiché è così facile distinguere i singoli anni, i ricercatori sono anche riusciti a contare gli anni che sono stati necessari per un cambiamento marcato del clima.
Ebbene, esaminando i sedimenti del periodo di transizione fra l’ultima era glaciale e il susseguente periodo caldo, transizione avvenuta circa 10'000 anni fa, la sorpresa è stata enorme: infatti il clima non è diventato gradualmente più caldo, ma ci sono stati cambiamenti molto repentini. Parliamo di un aumento della temperatura di 4° o 5°C nel giro di soli 15 anni. In chiaro ciò significa che anche nell’era attuale è possibile che il clima cambi in modo molto più rapido e brutale di quanto ipotizzato finora dai climatologi. Il problema è che i “Tipping Points”, ossia i meccanismi all’origine di questi cambiamenti repentini, non sono stati finora veramente studiati e che quindi sono ancora in gran parte incompresi.
Un ulteriore allarme in questo senso ci viene da uno studio pubblicato proprio in questi giorni sulla rivista scientifica “Nature” e che concerne la fusione dei ghiacciai della Groenlandia. Stando a questo studio, che si basa su rilevamenti satellitari effettuati sul “fiume di ghiaccio” della Groenlandia nordorientale, un titanico nastro trasportatore di ghiaccio che si snoda per circa 600 chilometri dall'entroterra fino al mare e che fa scivolare circa il 12% dell'intera calotta glaciale groenlandese verso il mare, ebbene questo “fiume” trasporta il ghiaccio verso il mare 6 volte più in fretta del previsto. Da notare che questo solo “fiume” contiene abbastanza acqua sotto forma di ghiaccio da far innalzare il livello globale del mare di oltre un metro. Notizie preoccupanti analoghe ci provengono anche dai ghiacciai dell’Antartide, in particolare dai giganteschi ghiacciai Pine Island e Thwaites. Tutte queste notizie indicano che la velocità di fusione dei ghiacciai è stata finora gravemente sottovalutata. Ciò significa in pratica che anche gli scenari più pessimisti disegnati finora sul futuro innalzamento del livello degli oceani sono da cestinare.