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Le probabilità di riuscire a sopravvivere alla catastrofe climatica sono oramai ridotte al 10%

Articolo del 14 ottobre 2020

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A dirlo non sono i seguaci di Extinction Rebellion o di Fridays for Future, ma eminenti scienziati in un articolo dal titolo “Deforestation and world population sustainability: a quantitative analysis” apparso su Scientific Reports della prestigiosa rivista scientifica NATURE 

Nell’articolo (vedi: https://www.nature.com/article...) firmato da Mauro Bologna del Departamento de Ingeniería Eléctrica-Electrónica, Universidad de Tarapacá del Chile e da Gerardo Aquino dell’Alan Turing Institute di Londra si afferma che ci rimangono solo ancora pochi decenni fino al collasso irreversibile della nostra civiltà. Alla loro conclusione i ricercatori sono giunti a seguito di precisi calcoli statistici su un fenomeno al quale è stata data finora poca importanza: la deforestazione.

Dei numerosi fattori che influenzano l'evoluzione del clima della terra, uno dei più importanti è infatti la deforestazione ad opera dell’uomo. Prima della nascita delle principali civiltà umane sulle terre emerse si contavano 60 milioni di km2 di foreste. Di questi, oggi, ne sono rimasti appena 40 milioni e si continua imperterriti a tagliare e a bruciare. Si calcola che attualmente esistano ancora sulla terra circa 3'300 miliardi di alberi, ossia 422 a testa per ogni abitante. Di questi ne vengono eliminati ogni anno circa 16 miliardi, ossia 2 a testa per ogni abitante del nostro pianeta, parliamo qui beninteso di quegli alberi che non vengono sostituiti con l’impianto di alberi nuovi.

Il fatto è che le foreste giocano un ruolo primordiale nel mantenere vitale l’ecosistema, di cui anche noi umani siamo parte: sono loro che in ultima analisi rendono il nostro pianeta abitabile. Esse producono infatti una parte importante dell’ossigeno che respiriamo, assorbono il CO2 e ne immagazzinano il carbonio nel legno il CO2. Esse giocano un ruolo essenziale nella gestione del ciclo dell’acqua, nell’evitare l’erosione dei terreni fertili e rappresentano il miglior meccanismo possibile per mantenere la nostra atmosfera pulita e respirabile. Tenendo conto del loro ruolo centrale per tutto l’ecosistema terrestre, appare difficile immaginarsi la sopravvivenza della stragrande maggioranza delle specie senza l’esistenza delle foreste.

Se la deforestazione continuerà al ritmo attuale, l’ultimo albero sarà abbattuto fra 200 anni

Negli ultimi anni sono scomparsi in media dal nostro pianeta 200'000 km2 di foreste all’anno. Qualora la deforestazione dovesse continuare al ritmo attuale, l’ultimo albero sarà abbattuto al più tardi fra 200 anni. A peggiorare la situazione vi è il fatto che il ritmo di deforestazione non accenna affatto a diminuire e non rimane nemmeno costante, ma aumenta di anno in anno. Ma non è solo la deforestazione da parte dell’uomo a compromettere la capacità delle foreste di svolgere il loro ruolo centrale nell’ecosistema: vi è anche la moria di grandi superfici boschive a causa dei sempre più numerosi episodi di siccità innescati dal surriscaldamento del clima, come accaduto quest’anno in Germania, e il crescente numero di disastrosi incendi, vedi quelli scoppiati negli ultimi anni nelle regioni artiche (Siberia, Scandinavia, Canada, Alaska), in California, in Australia e in Sudamerica. Ovviamente non è realistico pensare che la nostra civiltà collasserà soltanto dopo che l’ultimo albero sarà stato tagliato. Il degrado dell’ambiente in cui viviamo, causato dal disboscamento incontrollato, si percepisce sin d’ora e andrà progressivamente crescendo. È dunque molto probabile che il collasso avverrà molto prima e che nel giro di pochi decenni il nostro pianeta non sarà più in grado di nutrire la sua popolazione.

Faremo la fine degli abitanti dell’Isola di Pasqua?

I ricercatori sono molto pessimisti per quel che concerne la nostra capacità di correre rapidamente ai ripari. Il loro calcolo è matematico ed estremamente chiaro: se non si riesce a reagire subito e in modo radicale, il collasso dell’intero sistema è programmato, non tra un secolo o due, ma entro i prossimi 20-40 anni. I loro calcoli statistici ci danno appena il 10% di opportunità di riuscire ad evitare la catastrofe. Il problema è che non abbiamo un pianeta B dove poterci rifugiare in caso di disastro.  

Il processo che abbiamo innescato ricorda quanto è successo agli abitanti dell’Isola di Pasqua, situata nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico a 3'526 km dalla costa del Cile. Durante il periodo di massimo splendore di questa civiltà, nel 16° e 17° secolo, la popolazione della piccola isola raggiunse il picco di 15.000 abitanti e lo sfruttamento incontrollato delle limitate risorse arrivò a un livello tale da provocare un vero e proprio collasso ecologico. Quando nel 1722 vi giunsero i primi Europei trovarono una terra desolata priva di alberi e abitata solo sparuti gruppi di abitanti affamati. Le ricerche effettuate negli ultimi anni hanno permesso di scoprire che l’isola ospitava un tempo un ambiente ben diverso dal deserto spoglio e desolante che si sono trovati davanti i primi esploratori. Vi si coltivavano il taro, le patate dolci, le banane, il gelso da carta, e dove erano rimasti solo pochi polli e ratti c’erano invece sei specie di uccelli terrestri e almeno 25 marine, tra aironi, pappagalli, barbagianni, albatri, sule, fregate, sterne e molte altre specie. Anche il “mistero botanico” è stato  risolto tramite analisi dei pollini contenuti in carote di terreno, che hanno rivelato che su Rapa Nui, così era chiamata l’isola dagli indigeni, era diffusa una palma molto simile alla palma da vino cilena, la Jubaea chilensis, una pianta che può raggiungere i 20 metri di altezza, e almeno 21 altre specie di alberi dalle dimensioni imponenti, ma che tutti questi alberi erano stati spazzati via dagli abitanti entro il 1650, mentre lottavano per accaparrarsi le ultime risorse oramai rimaste. Il risultato fu che la loro civiltà precipitò nel caos e nelle guerre civili e che i suoi abitanti non poterono nemmeno più lasciare l’isola, visto che di legname, per costruire le imbarcazioni necessarie a questo scopo, non ne esisteva più.

Abbiamo appena 10 anni di tempo per invertire la rotta

La probabilità che l'umanità ce la faccia a sopravvivere dipende dalla sua capacità di ridurre in modo rapido e drastico la crescita demografica e il suo impatto sull’ecosistema, in particolare sulla copertura forestale del pianeta. Attualmente tutti i segnali indicano tuttavia un ulteriore aumento di quest’impatto. Ogni minuto la popolazione mondiale aumenta di 157 persone e in appena 170 anni siamo passati da 1,26 miliardi di abitanti (1850) a 7,8 miliardi (2020). Oggi ogni uomo o donna di questo pianeta consuma in media 80 volte più energia di 100 anni fa; mentre agli albori dell’era industriale quasi il 100% dell’energia consumata era rinnovabile (acqua, vento, legname, cavalli, ecc.), oggi oltre l’80% è di origine fossile e le sue emissioni incrementano di anno in anno l’effetto serra.

“Abbiamo appena 10 anni per invertire la rotta”, a dirlo è Luca Mercalli, climatologo, nonché presidente della Società Meteorologica Italiana e docente di sostenibilità ambientale. E questo perché quello che abbiamo innescato è un fenomeno reversibile solo su una scala di tempi millenaria, tempi non compatibili con la durata della vita umana e nemmeno con quella della nostra civiltà. Infatti il surriscaldamento del clima che abbiamo già innescato finora non può più essere invertito per i prossimi millenni e il conseguente aumento del livello degli oceani sarà inesorabile e renderà inabitabili immense zone costiere. Anche l’acidificazione degli oceani ha oramai assunto proporzioni enormi e c’è una soglia, che una volta superata porterà alla distruzione di gran parte dell’ittiofauna. Già oggi si registrano ad esempio gravi danni tissutali nelle larve del merluzzo atlantico, pesce che, con mezzo milione di tonnellate di catture all’anno, rappresenta uno dei principali prodotti della pesca industriale. Sulle terre emerse non va meglio: il ritmo della deforestazione aumenta e sfocerà nella desertificazione permanente di vaste zone del pianeta. A ciò va aggiunta l’enorme perdita di biodiversità: si calcola che attualmente scompaiano circa 50 specie ogni giorno, specie che rimarranno estinte per sempre. Senza contare poi il fatto che l’accumulo di inquinanti persistenti nei suoli, nell’aria e nelle acque danneggerà l’ambiente e la nostra salute per i secoli a venire e che una bonifica globale da questi inquinanti oltrepassa di gran lunga le nostre disponibilità sia tecniche, sia economiche. Urge quindi ripensare completamente il nostro sistema economico, basato su uno sfruttamento incontrollato delle risorse, e renderci finalmente conto che su un pianeta dalle risorse finite una crescita infinita non è più possibile.