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Le microplastiche di cui nessuno parla

Articolo del 19 marzo 2019

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Finiscono inavvertitamente nel mare, assomigliano a uova di pesce, sono ingerite dalla fauna marina, dove dispiegano il loro cocktail di tossine che poi finisce nei nostri piatti

Gli inglesi le chiamano col nome poetico di Mermaid Tears, lacrime di sirena, e sono “lacrime” tutt’altro che innocue. Si tratta di minuscole palline di plastica del diametro di qualche millimetro con le quali l’industria produce gran parte degli articoli di plastica che troviamo sugli scaffali dei nostri supermercati. Insieme alle micro-biglie che troviamo nei nostri cosmetici, sono classificate come microplastiche.

Durante la loro produzione e il loro trasporto molte di queste “lacrime di sirena” vanno perse e, trasportate dal vento e dalla pioggia, finiscono dapprima nei corsi d’acqua, da dove vengono poi trasportate in mare.

La loro sagoma e la piccola dimensione le rendono appetibili per la fauna marina, che le confondono ad esempio con uova dei pesci. Come ogni tipo di plastica anche queste sferule di polimeri a base di petrolio contengono numerosi composti organici persistenti e tossici per gli ecosistemi marini.

Quanti ce ne sono di questi granuli negli oceani nessuno lo sa con esattezza. Nella sola Gran Bretagna si stima che la produzione di oggetti in plastica disperda nell’ambiente e faccia finire in mare oltre 50 miliardi di queste “lacrime di sirena”, di che fabbricare 88 milioni di bottiglie di plastica. Si tratta di un inquinamento invisibile e silenzioso, di cui ci accorgiamo solo quando i laboratori ci comunicano via media i risultati delle analisi dei pesci che finiscono nei nostri piatti, con l’oramai immancabile contenuto di microplastiche.

Ricordiamo che le plastiche sono composte da polimeri artificiali, sostanze che non hanno paragone in natura. Di conseguenza non esistono processi biologici naturali che scompongono questi polimeri, i quali non marciscono come ad esempio il legno, la carta o il cuoio. La loro degradazione avviene solo tramite processi chimici, ad esempio tramite il processo fotochimico della luce solare oppure tramite gli acidi dei succhi gastrici dello stomaco di un animale. Si calcola che, a seconda del tipo di plastica, la loro eliminazione in natura può durare dai 100 ai 500 anni. Alcuni di questi polimeri, come il PVC (polivinilcloruro), contengono cloro e sono sostanze molto attive dal punto di vista chimico, sostanze che si degradano più rapidamente, liberando tuttavia in questo processo cloruri organici spesso molto tossici, come ad esempio le diossine.